31 ago 2012

L'INFILTRATO .... racconto di Arduino Rossi


L'INFILTRATO

Eravamo giovani e pronti a tutto, ci eravamo arruolati "nell'Esercito di Liberazione Nazionale" per difendere le nostre idee e subito, dopo un lungo anno di addestramento, ci mandarono oltre le linee nemiche, con documenti falsi.
Eravamo la quinta colonna, pronta ad agire unita se il comando generale l'avesse ordinato, ma le cose non andarono così, la guerra non ci fu, ma solo lunghi snervanti anni di pace.
Rimanemmo ai nostro posti, sempre decisi a non arrenderci, tanto nessuno ci conosceva, tranne il comandante in capo e i suoi fidati amici, tutti morti in un incidente aereo.
Non ci rimase che mantenere la nostra seconda personalità, ci sposammo, avemmo figli e incominciammo a invecchiare: nessuno sapeva nulla di noi, esercito nascosto e arrugginito, senza più patria per combattere.
La tensione dei decenni precedenti era sciamata in collaborazione e la nostra causa si era sfaldata senza lasciare rimpianti che in noi, duri e sempre pronti a morire, a uccidere al semplice comando.
Quanti eravamo non lo sapevo, forse mille, forse diecimila: avevamo un'azione da compiere prima di tutto e poi continuare a creare disordine, sabotare le linee nemiche sino all'arrivo dei nostri o alla morte.
La mia esistenza era tranquilla, mia moglie era convinta che provenissi dall'entroterra e che avessi un nome comune a tutti gli originari della provincia di montagna: in realtà non avevo alcun legame con il passato di quel paese, che lo odiavo più di ogni altra cosa.
Tutto andava bene, era una domenica pomeriggio e mi dedicavo al giardinaggio come al solito.
I ragazzini giocavano, quando dalla vecchia radio, collegata in soffitta, partì un segnale acutissimo: mi precipitai per essere certo che quello era il messaggio.
Noi non avevamo più nemmeno un esercito e forse qualcuno, di là, si stava divertendo con qualcosa che nemmeno lui sapeva cosa potesse provocare.
Tentai di collegarmi con la base o con i miei commilitoni, fu vano, tutto era stato bloccato per impedire intercettazioni.
Mia moglie mi chiese che diavolo stavo combinando, non badai a lei né ai miei figli: scesi in cantina e ruppi con una mazza il muro sigillato trent'anni prima.
Estrassi le armi e l'esplosivo, controllando l'efficienza, poi misi tutto in una borsa e partii.
La mia meta era la vicina base militare, dovevo uccidere immediatamente il comandante, uscire vivo, se riuscivo, poi continuare ad agire sino alla mia morte, visto che nessun esercito di liberazione sarebbe giunto in mio soccorso.
Fu facile entrare in caserma, la vigilanza era scarsa, essendo un giorno di festa nazionale.
Arrivai nella palazzina, dove c'era il comandante con i suoi ufficiali, ruppi un vetro e fui dentro, nella sala di attesa, bussai, sentii: -Avanti!-
Non aspettai, erano presenti tutti i principali ufficiali della caserma e fu facile scaricare il mio fucile mitragliatore su tutti.
Fuggii via prima che gli uomini di guardia mi potessero raggiungere, poi ancora agile, scavalcai il muro di cinta, mentre qualcuno mi urlava: -Si fermi o sparo!-
Non riuscì a colpirmi, perché svicolai rapido.
Avevo condotto la mia prima azione: ero meritevole di medaglia, ma certamente nessuno mi avrebbe decorato o stimato come un eroe.
Me ne infischiai: il dovere stava sopra tutto.
Ora dovevo far saltare il ponte della ferrovia: mi impossessai di una macchina e fui vicino ai binari, mi arrampicai sui tralicci e collocai il plastico nei punti prestabiliti.
Mi calai con una corda e in pochi minuti il ponte era in fondo al vallone, nell'acqua del fiume.
Ero orgoglioso di me, del mio coraggio e dell'agilità che avevo mantenuto in tutti quegli anni.
Chissà quante azioni sarebbero andate a termine in quella giornata afosa di luglio?
I miei commilitoni stavano certamente martoriando quel maledetto Paese.
Era l'ora del ritrovo di chi, nella zona, era sopravvissuto: avremmo assaltato i convogli di passaggio.
Ero stato molto veloce, perché sul "Colle Bruciato" ero  solo, non importava: sarei rimasto ad attendere.
Le ore trascorsero e nessuno giunse: erano tutti morti?
Qualcuno aveva tradito?
Non potevo più rimanere allo scoperto, decisi di rischiare e tornare a casa per tentare un contatto via radio: mia moglie dormiva, sicuramente si era preoccupata, immaginando che fossi impazzito.
Riuscii a non svegliare i miei figli e lei, quella che consideravo la mia copertura e tortura: era assillante, monotona, sempre insoddisfatta.
La radio era al suo posto: i miei la consideravano un residuato bellico e non la toccavano, indifferenti.
Inviai i miei messaggi, tutto era tranquillo. 
Il segnale d'allarme era scomparso, poi mi venne un dubbio atroce, che presto fu confermato: mio figlio minore aveva manipolato l'apparecchio e lo aveva decodificato, quel maledetto era intelligente quanto me.
Aveva combinato un guaio terribile, facendo partire il messaggio di azione solo dal mio apparecchio.
Io avevo agito, sprecando armi ed esplosivo.
Che potevo fare ora, accesi la televisione ed ascoltai il telegiornale speciale della notte: -Un terrorista sconosciuto ha assassinato tre ufficiali nella base militare di G.. Subito dopo altri criminali hanno fatto crollare un ponte ferroviario della zona!-
Avevo agito da solo, ormai non mi rimaneva che tornare alla mia copertura, indifferente all'accaduto: se mi avessero arrestato mi sarei suicidato.
Invece nessuno venne alla mia porta a bussare.
Mia moglie mi rimproverò la mia fuga precipitosa.
Mi scusai con una bugia, ma lei si preoccupò del sole: -Quante volte ti ho detto di coprirti il capo quando lavori in giardino!
Ho letto sulla rivista "Noi Donne" che un signore ebbe...-
Iniziò a raccontarmi vicende assurde lette su quelle stupide riviste di pettegolezzi e baggianate.
Dissi sempre: -Sì! Cara!-
La baciai sulla guancia per calmarla, ma lei ormai proseguiva nella sua narrazione, che inglobava fantasie, avvenimenti di ogni tipo.
Non la sentivo più e mi immaginai cosa sarebbe successo se realmente il nostro esercito avesse invaso quel Paese di stolti: saremmo caduti in combattimento tutti o avremmo preso il potere.
Io sarei diventato un eroe e non lo schiavo di una sciocca pettegola, dei suoi figli petulanti e grassi, irriverenti verso il loro padre.
Ero un eroe senza nome, avrei preferito morire in battaglia: quell'esistenza squallida era peggiore di un campo di prigionia nemico.